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Opinioni

Arcelor Mittal dà l’addio a Ilva, Aib: una sconfitta per l’intero Paese

in Acciaio/Economia/Giuseppe Pasini/Opinioni/Personaggi by

L’Associazione Industriale Bresciana esprime il suo forte disappunto per la notizia, diffusa oggi pomeriggio, della decisione di Arcelor Mittal – multinazionale dell’acciaio – di rescindere il contratto di acquisto dell’impianto Ilva di Taranto.

“Una certa politica voleva la chiusura dello stabilimento ed ha raggiunto il suo obiettivo. L’addio di Arcelor Mittal è un fallimento per l’intero Paese, la seconda manifattura d’Europa, che ha lasciato scappare un investitore mondiale, a testimonianza dell’assenza in Italia di una vera politica industriale – commenta Giuseppe Pasini, Presidente di AIB –. Quale altra realtà imprenditoriale, oggi, può pensare di rilevare l’impianto? Le ripercussioni saranno enormi. Aumenteranno le tonnellate di acciaio importato dall’estero, e tutta la filiera ne subirà le conseguenze, che saranno importanti anche per una realtà come Brescia. L’impatto occupazionale, poi, sarà tremendo: parliamo di quasi 11mila dipendenti, se consideriamo solo quelli diretti. Non è certamente ipotizzabile sostituire un’area industriale del genere con un parco giochi”.

Secondo stime elaborate da SVIMEZ, dal sequestro dello stabilimento (luglio 2012) a oggi sarebbero andati perduti 23 miliardi di euro (3-4 miliardi all’anno), circa due decimi di punto della ricchezza nazionale. Complessivamente si tratta dell’1,4% circa di PIL cumulato. Di tali 23 miliardi complessivamente erosi, 7,3 ricadrebbero sul cosiddetto “nord industriale” (Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emila Romagna). La crisi dell’ILVA ha poi determinato, fra il 2013 e il 2019, minor export italiano per 10,4 miliardi e minori consumi delle famiglie per 3,5 miliardi.

Le Partite Iva pagano troppo poco di tasse? 15 motivi per dire che non è vero

in Economia/Opinioni/Partner/Tasse by
Tasse, foto generica da Pixabay
 Le Partite Iva in Italia pagano poco di tasse? Difficile dare una risposta per tutti, visto che esistono regimi con tassazioni diverse (ordinario, forfettario etc) e che a queste si aggiungono casse previdenziali che chiedono percentuali differenti sui fatturati. Di seguito, però, riteniamo opportuno pubblicare una breve riflessione per punti sul fatto che ci sono numerose condizioni che rendono svantaggioso avere una Partita Iva rispetto a un contratto di lavoro dipendente.

⛔️⛔️⛔️ PARTITE IVA: 15 MOVITI PER CUI SONO SVANTAGGIATE RISPETTO AI DIPENDENTI

1) ⛔️ Un lavoratore autonomo non ha ferie e permessi retribuiti;

2) ⛔️ Un lavoratore autonomo non ha assegni familiari, né ha alcun diritto legato alla paternità (la maternità è solo parzialmente tutelata dallo Stato);

3) ⛔️ Un lavoratore autonomo in caso di malattia non è retribuito (salvo sistemi previdenziali integrativi);

4) ⛔️ Un lavoratore autonomo se non può lavorare per motivi gravi non percepisce reddito (ma mangia lo stesso come tutti);

5) ⛔️ Un lavoratore autonomo non ha 13esima (14esima etc);

6) ⛔️ Un lavoratore autonomo non ha il Tfr;

7) ⛔️ Un lavoratore autonomo non ha buoni pasto e benefit vari come in molte aziende;

8) ⛔️ Un lavoratore autonomo ha ogni anno spese extra relative alla gestione della Partita Iva (commercialista etc);

9) ⛔️ In alcuni regimi fiscali la Partita Iva è obbligata dallo Stato a pagare le tasse in anticipo, su cifre che non ha incassato e forse non incasserà mai;

10) ⛔️ Alle cifre dichiarate, oltre alle tasse, vanno sottratte le casse previdenziali (dal 12 al 27 per cento) per pensioni che saranno più basse dei colleghi dipendenti;

11) ⛔️ Alle cifre dichiarate, spesso vanno sottratti costi vivi legati al lavoro e non detraibili;

12) ⛔️ Siccome il lordo non corrisponde alle entrate reali, il lavoratore autonomo si trova spesso penalizzato nei parametri Isee e si trova a pagare di più dei dipendenti per i servizi base offerti dal pubblico;

13) ⛔️ Nei regimi ordinari la tassazione sulle Partite Iva è tra le più alte del mondo;

14) ⛔️ Non è vero che tutte le partite Iva evadono le tasse;

15) ⛔️ In molti casi avere una Partita Iva non è una scelta.

La network analysis nelle imprese | INNOVATION CLUB

in Economia/facoltà Economia/Formazione/Innovation club/Opinioni/Partner 2/Rubriche by
Matteo Casnici

Se vi fosse chiesto di raggiungere con un messaggio il presidente degli Stati Uniti, di certo pensereste che arrivare ad una persona così lontana nello spazio e così estranea alla vostra cerchia di conoscenze sia una follia. Sbagliereste. Recentemente un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Milano ha mostrato che questo è possibile, naturalmente tramite il Web. Nel 2011 il Prof. Boldi e colleghi, riprendendo il tema del celebre studio sui “sei gradi di separazione” condotto da Milgram negli anni Sessanta, hanno analizzato le reti di amicizia su Facebook (ai tempi 721 milioni di utenti e 69 miliardi di legami), concludendo che la distanza tra due utenti qualsiasi è, in media, pari a circa quattro passaggi. Vale a dire, per recapitare un messaggio a un utente qualsiasi -anche dall’altra parte del globo-, basterebbe scrivere ad un amico, il quale inoltrerebbe il messaggio ad un suo amico, che lo manderebbe a sua volta ad un altro amico, il quale finalmente lo consegnerebbe al destinatario ultimo. Solo quattro passaggi.

Nell’ultimo decennio, la consapevolezza di vivere in un mondo fortemente interconnesso inizia ad essere di patrimonio comune. La connessione è diventata non solo uno dei principali paradigmi dei nostri tempi, ma anche un aspetto chiave per le aziende. Basti pensare che il concetto di responsabilità sociale d’impresa, approccio innovativo e recentemente molto discusso, si basa sull’assunto che l’azienda sia connessa ad una rete di attori interni ed esterni ad essa, verso i quali essere economicamente ed eticamente responsabile. Molti studi empirici mostrano che anche la capacità di un’impresa di generare innovazione dipende da come essa sia interconnessa all’ambiente che la circonda. Il grado d’innovatività di un’azienda dipende non solo dal talento personale dei manager e dalla cultura aziendale, ma anche dalla presenza di legami con realtà diverse e complementari e, più in generale, di un sistema di relazioni strategiche di condivisione che facilitino l’emersione di nuove idee vincenti.

Relazioni e connessioni permeano la vita quotidiana dell’impresa. All’interno di molte aziende, in particolar modo quelle con strutture organizzative più “verticali”, i dipendenti sono organizzati in una struttura gerarchica, secondo ruoli e mansioni. La forza lavoro di un’azienda forma una rete interdipendente di soggetti che si scambiano informazioni, documenti, prodotti semi-lavorati. La struttura formale di questa rete di relazioni è ben rappresentata dall’organigramma. Ma questo non basta. In ogni organizzazione c’è anche una struttura invisibile di relazioni che legano i dipendenti tra loro. In azienda gli attori si scambiano fiducia, relazioni di supporto operativo, problem solving, idee, amicizia. Tali relazioni non sono osservabili a occhio nudo né tantomeno ricavabili dall’organigramma. Questa struttura è la rete informale di relazioni che vive in ogni impresa, e non è detto che coincida con quella formale, né è detto che sia meno importante di essa. In un recente studio pubblicato su HR Magazine, è stato presentato il caso di un’azienda americana che, per meglio governare il processo di crescita internazionale, si era posta l’obiettivo di coinvolgere le figure aziendali più influenti assieme al change management. Per individuare questi influencer interni, il management si avvalse di uno studio scientifico che coinvolse 200 manager in 10 paesi diversi. L’analisi identificò poco più di una dozzina di soggetti chiave che risultavano fondamentali per connettere tra loro i dipendenti dell’azienda. La grande sorpresa fu che metà di loro erano soggetti che i leader divisionali non si sarebbero mai aspettati (considerando l’organigramma) e che ricoprivano ruoli anche marginali, formalmente. Alcuni di loro risultavano molto più influenti di tanti soggetti con importanti incarichi dirigenziali. E i manager non lo sapevano.

 

Per indagare le relazioni fuori e dentro l’impresa, università e società di consulenza utilizzano un insieme di tecniche chiamato network analysis. Questa disciplina nasce negli anni Trenta da un gruppo di sociologi che studiavano persone e organizzazioni non come attori a sé stanti, ma come entità interconnesse. Lo scopo era capire come le relazioni potessero influire sui comportamenti. Dagli anni cinquanta la network analysis si diffonde ed assume un carattere ampiamente interdisciplinare. È utilizzata non solo da sociologi e antropologi, ma anche da economisti dell’organizzazione per comprendere le dinamiche di potere e collaborazione in azienda, da analisti finanziari per studiare le interdipendenze tra i titoli, da esperti di comunicazione per analizzare i fenomeni di diffusione di informazioni, da operatori di marketing per massimizzare l’estensione di una campagna pubblicitaria minimizzandone i costi, e persino da biologi e scienziati naturali per studiare le interdipendenze negli ecosistemi. Questa disciplina si basa su rigorose tecniche matematiche e più precisamente sulla teoria dei grafi, che permette di rappresentare sistemi a vari gradi di complessità tramite modelli di rete, in cui i soggetti sono rappresentati come dei punti (nodi) legati tra loro da relazioni (legami). Questi modelli permettono di semplificare la realtà e ottenere informazioni o rappresentazioni che altrimenti sarebbero invisibili.

Le potenzialità e gli impieghi della network analysis in ambito organizzativo-aziendale sono molteplici.

  1. Fusioni e acquisizioni: la network analysis è utilizzata dalla società acquirente per studiare le reti informali della società acquisita, al fine di individuarne gli attori chiave. Tali informazioni sono poi utilizzate a supporto dei processi d’integrazione che seguono all’acquisizione e permettono grande risparmio di risorse e guadagno in termini di efficienza.
  2. Ottimizzazione dei processi: tecniche di analisi delle reti sociali sono impiegate per identificare i flussi d’informazioni o di materiali in azienda e rilevarne eventuali inefficienze. In base ai dati, il management può intervenire modificando la struttura spaziale in azienda (es. avvicinando due risorse strategiche), investendo in infrastrutture tecnologiche (es. intranet per facilitare la comunicazione) o inserendo nuove figure aziendali in aree problematiche.
  3. Gestione del personale: tenendo presente che non sempre i veri leader sono individuabili nella struttura formale dell’impresa, avere una chiara mappa delle relazioni informali in azienda aiuta il management a individuare gli opinion leader, a prendere decisioni di avanzamento di carriera e di incentivazione del personale. Inoltre, fornire un diagramma della struttura di relazioni informali ai nuovi arrivati può essere estremamente utile nelle fasi di inserimento del personale, limitando costi di apprendimento ed inefficienze.
  4. Efficacia manageriale: in generale, per qualsiasi manager è importante sapere chi siano i leader informali dell’impresa. Conoscere i leader significa capire come sia distribuito il potere nell’azienda, aspetto che per un manager si rivela fondamentale sempre e comunque per il buon governo dell’impresa.

Relazioni e connessioni caratterizzano la vita dell’azienda anche al di fuori dalle strutture produttive. Da qualche anno le aziende stanno dedicando una crescente attenzione alle dinamiche d’ingaggio e soddisfazione del cliente. Avere una clientela fidelizzata e soddisfatta significa diminuire i costi di mantenimento del cliente e limitare le oscillazioni di fatturato, fattore d’importanza strategica. Per arrivare a questo obiettivo, le aziende stanno modificando il modo di porsi con i clienti e il teatro di questo cambiamento è ovviamente il Web. Se nei primi anni Duemila le aziende più dinamiche si erano munite di un sito E-commerce, oggi questo non basta più. Le aziende oggi sono chiamate a uno sforzo più articolato. I clienti non utilizzano più il Web solo per acquistare, ma soprattutto per cercare e condividere informazioni, scambiarsi consigli e raccomandazioni. Per le aziende non è più sufficiente avere un semplice E-commerce tramite cui vendere prodotti, ma è necessario prima di tutto creare una comunità di clienti. Tante aziende si stanno muovendo in questa direzione, come dimostra negli ultimi anni l’esplosione del numero di pagine aziendali di piccole e grandi attività su Facebook, Instagram e altri social. I clienti vogliono vedere il prodotto prima di acquistarlo, conoscere l’opinione degli altri consumatori, condividere la loro esperienza con gli altri e capire la filosofia aziendale del venditore. Il cliente non è più un’entità isolata che agisce di proprio conto prendendo decisioni di consumo autonome –ammesso che lo sia mai stato. Oggi più che mai il cliente è da considerarsi un soggetto che si relaziona in più fasi non solo con l’azienda, ma anche con i suoi pari.

Alcune ricerche accademiche hanno descritto il processo decisionale che porta all’acquisto come un percorso a più fasi. A questo proposito, eccone un semplice modello semplificatorio ed esemplificativo. Fase 1: il potenziale cliente riconosce di avere un bisogno. In molti casi questo avviene perché il soggetto entra in contatto con altri soggetti che lo influenzano. Questi influencer sono tanto individui reali con cui il potenziale cliente interagisce faccia a faccia, quanto utenti online con cui egli interagisce all’interno di comunità Web, blog o social networks. Fase 2: il potenziale cliente ha bisogno di un aiuto. Ha davanti a sé una gamma vastissima di prodotti e deve selezionarne uno, per cui chiede consiglio agli utenti della rete, ne legge le recensioni, cerca le opinioni dei clienti che hanno già acquistato i vari prodotti. Fase 3: il potenziale cliente si convince della superiorità di un prodotto e, allora, cerca il miglior modo di comprarlo, se direttamente dall’azienda o da un distributore. Per decidere, osserva che cosa hanno fatto gli altri consumatori e il loro grado di soddisfazione. Il potenziale cliente in questo momento diventa cliente. Diretto, se compra direttamente dal produttore, indiretto se acquista da un distributore. Fase 4: il cliente, in base alla sua esperienza di acquisto e di utilizzo del prodotto, decide infine se scrivere una recensione o lasciare un commento che servirà ad altri clienti in futuro.

La decisione d’acquisto in tutte le sue fasi è influenzata dal contatto con gli altri consumatori. Oggi uno dei temi preponderanti del marketing moderno è la profilazione del cliente, cioè offrire a ogni singolo soggetto un prodotto personalizzato in base ai suoi gusti e alle sue preferenze. Questo è molto importante e assicura un aumento dell’efficacia dell’azione d’ingaggio, vendita e fidelizzazione. Ma forse ancora più importante è capire dove i soggetti prendano informazioni, da chi sono influenzati, quali siano le cerchie sociali in cui i soggetti trovano ed ascoltano i loro influencer, a quali persone o gruppi i potenziali clienti siano connessi. Perché proprio da qui emerge il comportamento d’acquisto.

La social network analysis è uno strumento di marketing con potenzialità molto elevate perché consente di rappresentare ed analizzare le connessioni esplicite ed implicite tra i potenziali clienti di un’azienda. In questo modo, i clienti sono rappresentati come individui appartenenti a comunità e non come soggetti a sé stanti. Ecco alcune applicazioni operative:

  1. Expert targeting: uno dei principi fondamentali del direct marketing è raggiungere i consumatori con valore più alto, da cui ci si attende un profitto più elevato, rispetto al costo dell’azione di marketing. Mentre l’approccio del marketing tradizionale calcola il valore del cliente in base ai suoi acquisti potenziali nel tempo, un approccio più evoluto deve prendere in considerazione anche il potere d’influenza del soggetto stesso, vale a dire quanti altri clienti potenziali sia in grado di influenzare e di convertire. Il potere di influenzare altri soggetti è stato definito network value. La network analysis aiuta a selezionare, su un vasto numero di clienti o clienti potenziali, quelli con network value più alto, in modo da permettere all’azienda di concentrare su di loro l’azione di marketing e non su un numero imprecisato di utenti considerati tutti alla pari. Saper individuare gli influencere investire su di loro significa minimizzare i costi di marketing e massimizzarne efficacia e profitto atteso.
  2. Churn rate: avere idea di come i consumatori si relazionino tra loro e di come si influenzino implica anche la comprensione di quanto velocemente si diffonderanno non solo i comportamenti di acquisto, ma anche i comportamenti di abbandono. Il churn rate è una variabile chiave, in quanto ha un impatto immediato e diretto sul fatturato. La network analysis può aiutare a capire come si relazionano utenti e influencere aiutare a contrastare i tassi di abbandono, ad esempio mettendo in campo politiche di promozione e incentivazione di alcuni clienti chiave.
  3. Social recommendations: per molte aziende il modello di business è strettamente collegato alla capacità di generare recensioni utili. Grandi aziende come Amazon, Google o Tripadvisor, forniscono consigli ai consumatori in base alle scelte compiute dai loro contatti. Ricevere un’indicazione su che cosa ha fatto un amico può influenzare pesantemente il comportamento di consumo. La network analysis permette di definire come i potenziali clienti siano collegati tra loro e consente, quindi, di costruire sistemi di recensione sempre più efficaci, che limitino l’impatto dei costi di marketing diretto a favore di sistemi intelligenti e automatizzati, non solo per le grandi imprese, ma anche per le piccole-medie realtà.

Analizzare e comprendere le relazioni sociali dentro e fuori l’azienda è di fondamentale importanza, poiché vuol dire capire come il potere di influenzare le azioni altrui si distribuisce nella vita dell’impresa. Il valore aggiunto per il management, oltre alla consapevolezza (comunque cosa non indifferente), è poter far leva su questi meccanismi per aumentare il valore generato dall’impresa, ad esempio riducendo le inefficienze interne e aumentando l’efficacia delle azioni di marketing.

In questo quadro, la collaborazione tra università e impresa risulta fondamentale, poiché su questi temi c’è una grande mole di ricerca scientifica che, pur avendo un grande valore innovativo potenziale, non è ancora stata applicata. Il terreno è pronto affinché le scienze sociali raccolgano questa sfida, insieme con le imprese.

 

Niccolò Casnici

Dipartimento di Economia e Management

Università degli Studi di Brescia

INNOVATION CLUB – LEGGI LE PUNTATE PRECEDENTI

Insegnare a fare l’imprenditore, si può | di Bortolo Agliardi

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di Bortolo Agliarti – La crisi – quella che sperabilmente ci stiamo lasciando alle spalle – come tutte le crisi ha qualche aspetto positivo. Secondo la nota riflessione di Albert Einstein, in realtà le crisi sono vicende tutte positive, tutte taumaturgiche, perchè impongono schemi nuovi, indicano strade alternative, segnalano nuove opportunità. Sono considerazioni che hanno il loro valore, anche se, guardandomi alle spalle e segnando le molte aziende in questi anni scomparse e quindi mettendo in conto le fatiche e le lacrime di tanti artigiani, faccio onestamente fatica a gridare “viva le crisi”.

Ma bisogna convenire che su un aspetto, questa tremenda crisi un qualche beneficio l’ha portato. Ed è, a mio parere, una convinzione nuova, diffusa, ragionata, circa la necessità di avere un lavoro; si è un po’ capito – forse più che in precedenti situazioni di difficoltà, forse perchè appunto questa crisi è stata particolarmente feroce – che il lavoro è vita, che senza si fa fatica non solo a tirare a fine mese ma anche a vivere, a dare un senso più pieno alla vita. Il lavoro, parafrasando un vecchio adagio, è come l’aria: ne capiamo l’importanza quando viene a mancare. Il lavoro, quindi, come condizione privilegiata, non come una condanna come lo si leggeva fino a qualche tempo fa. Se quindi il lavoro è importante, importantissimo, a come crearlo, come mantenerlo, come accrescerlo, vanno dedicate attenzioni particolari. Naturalmente ci sono tante cose da fare per ottenere questo obiettivo: fisco più semplice, tasse più basse, incentivi allo sviluppo, agevolazioni a chi vuole fare impresa eccetera eccetera. Ma c’è un aspetto che a mio avviso si sottovaluta, ovvero il ruolo della scuola. Ma come, si potrà obiettare, che c’entra la scuola con il creare lavoro? La scuola deve guidare, preparare e insegnare. Appunto: perchè la scuola non può considerare anche questo aspetto: insegnare a fare l’imprenditore. Intuisco le possibili obiezioni (la scuola ha già tanto da fare, i mezzi sono pochi, poi ci sono i programmi, le leggi e via elencando). Intuisco, ripeto, e in parte comprendo.

Settembre è iniziato e sò bene che il problema primo di presidi e dirigenti è quello di avere cattedre coperte, come si dice, evitando sperabilmente i vuoti e i problemi dello scorso anno. E quindi d’accordo: vediamo e speriamo di partire col piede giusto e di metterci in carreggiata. Ma poi, più avanti, è così impossibile immaginare di avviare un confronto con le associazioni di categoria delle imprese per vedere se e come sia possibile immaginare di insegnare a fare l’imprenditore. Penso naturalmente alle scuole superiori, e non necessariamente agli ultimi anni. Perchè non si potrebbe insegnare a fare l’imprenditore? Perchè non si dovrebbe poter cominciare a spiegare, ad esempio, che cos’è un artigiano, come si diventa, che cosa può fare, che problemi si incontrano ma anche che soddisfazioni dà l’essere padroni di se stessi; perchè non fare incontrare degli artigiani con i ragazzi, capire un mestiere, scoprire le curiosità e sentire dai nostri artigiani perchè hanno deciso (al tempo) di diventare tali e perchè hanno continuato a farlo anche se, magari, avevano qualche alternativa di lavoro. Oppure perchè non raccontare ai nostri ragazzi che l’innovazione non è solo alta tecnologia (anche se ovviamente ci sono artigiani che utilizzano tecnologie avanzatissime) ma che l’innovazione, generata da menti fresche, si presta ad essere inserita anche in mestieri “antichi”.

Perché non dare la possibilità agli insegnanti di conoscere meglio il tessuto produttivo artigiano, le caratteristiche e soprattutto le potenzialità? Sono convinto che anche gli insegnanti apprezzerebbero l’opportunità e lo stimolo di conoscere da vicino un mondo ai più sconosciuto. Perchè, in una parola, non avvicinare di più la scuola alle imprese, perchè non considerarle complementari. In fondo, entrambi – la scuola e le imprese – la stessa cosa vogliamo per i nostri giovani: un futuro migliore; siamo – la scuola e le imprese – un po’ la doppia faccia di una medaglia unica. Solo che, come nella medaglia, il fronte e il recto non si guardano. Spesso così accade. E questo non è positivo. Faccio queste considerazioni offrendo la disponibilità mia personale e quella dell’Associazione che presiedo: ci fosse qualche scuola interessata ad approfondire il tema noi ci siamo. Vediamoci e vediamo se e come un possibile primo percorso in questo senso sia possibile, con l’augurio che, come detto agli inizi, l’avvio del nuovo anno scolastico sia un po’ meno tribolato di quello passato.  ​

Presidente Associazione Artigiani

L’OPINIONE: Burocrazia, artigiani e commercialisti uniti nella lotta

in Associazione Artigiani/Associazioni di categoria/Bortolo Agliardi/Economia/Opinioni/Personaggi by

di Bortolo Agliardi – Nelle settimane scorse, i commercialisti italiani hanno indetto uno sciopero sorprendente per le motivazioni. Probabilmente per la prima volta nella storia, una categoria – i commercialisti, per l’appunto – proclamavano uno sciopero non per difendere interessi propri, ma quelli dei loro clienti, e in particolare gli artigiani e le piccole e medie imprese. Lo sciopero è poi rientrato per una serie di assicurazioni avute dal Governo che vedremo se verranno mantenute.

Ma è curiosa – amaramente curiosa – questa storia dei professionisti che minacciano un super-sciopero (avrebbe dovuto tenersi dal 26 febbraio al 6 marzo, così da bloccare le dichiarazioni Iva) per conto dei loro clienti. Che è mai accaduto? La storia potrebbe avere un semplice titolo: L’orco Burocratico. Perché di questo si tratta: di burocrazia, di adempimenti su adempimenti, di carte o di file, di controlli incrociati che non finiscono mai, di promesse – la Semplificazione tanto annunciata – e mai mantenute. Di più: non solo non mantenute, ma disattese; non solo la semplificazione non arriva ma arriva un supplemento, un’aggiunta di pratiche, di dati, di numeri da inviare. E questo naturalmente significa lavoro su lavoro (e questo credo potrebbe anche star bene ai commercialisti) e costi su costi (ma questo non sta bene alle aziende che devono pagare i commercialisti). Questo è il punto: i commercialisti, che ben sanno quanta burocrazia si devono sfangare per conto delle aziende, hanno minacciato uno sciopero perchè persino a loro (che pur avrebbe potuto beneficiare del super lavoro) la misura è parsa colma, eccessiva. E hanno detto basta. Capite l’enormità della cosa? Un gruppo di professionisti (praticamente tutti i commercialisti italiani) hanno minacciato di lasciar cadere la penna per salvaguardare i loro clienti, in particolare quelli più piccoli. Perchè questo è il punto: una grande azienda è strutturata di suo per fare queste pratiche, ma i più piccoli non lo sono, devono andare dal commercialista che se deve a sua volta aggiungere pratiche a pratiche si farà pagare di conseguenza.

Di cose che si sono sovrapposte a cose che dovevano essere rimosse ce ne sono tante. Un esempio, uno solo, fra i tanti. Sono stati tolti gli studi di settore. Benissimo: una pratica in meno, per gli artigiani e le piccole imprese qualcosa in meno da pagare al commercialista. Illusione: hanno inserito una norma tale per cui adesso ogni tre mesi va trasmesso al fisco l’elenco di clienti e fatture. E quindi: viene tolta una norma (gli studi di settore) ne vengono messe 12 (ogni 3 mesi un elenco per i clienti ed uno per le fatture moltiplicate per quattro trimestri…). Per le grandi imprese, come detto, magari non è la fine del mondo, per noi sono costi aggiuntivi.

Ripeto: è solo un esempio, ma che attesta una qual disinvoltura nel maneggiare queste cose, si decidono nuovi impegni ma bisognerebbe ben considerare che ogni nuovo impegno è un costo. Per non parlare, ma ne accenno di sfuggita, alla quasi tradizionale beffa di fine anno, quando vengono approvate a san Silvestro norme e decreti retroattivi. E’ una aberrazione, così non può andare, non si può sbandierare e parlare di semplificazione e poi, nella pratica, razzolare male. La gente, gli artigiani, sono stanchi. Come più volte abbiamo detto, il problema numero 1 non sono più le tasse (che pure dovrebbero essere più basse, intendiamoci: una pressione al 48% è quasi da record del mondo!), ma ormai è questo continuo stillicidio di nuovi adempimenti, di interpretazioni non facili, di assenza di certezze, di timore costante di sanzioni. Siamo stanchi, mi ripeto.

Chiudo con un altro esempio che magari non fa direttamente capo al fisco, ma che attesta una complicanza quasi incomprensibile nell’era digitale. Voi sapete che da qualche tempo ci si può dimettere solo per via telematica. Per dimettersi dal posto di lavoro avete due opzioni: o andate direttamente all’ispettorato del lavoro, al patronato o presso una organizzazione sindacale,  altrimenti dovete farlo via telematica previo possesso del codice pin Inps dispositivo e personale. Ora, dico io, nell’era 4.0 non è davvero possibile trovare una soluzione più facile, più immediata, più smart per usare un termine oggi di moda?

Immigrati e lavoro, una domandina ai sindacati (e ai partiti)

in Ave/Aziende/Economia/Opinioni/Sindacati by

di Sandro Belli – Da anni il sindacato, con le sue graduali conquiste e le sue “vivaci” pressioni ha creato garanzie, assistenza e sicurezza per i lavoratori contribuendo alla realizzazione di un sistema di welfare complesso e protettivo di alto livello, anche se decisamente costoso. Ciò che si è venuto a creare, nei confronti di immigrati e in genere di cittadini stranieri è un po’ paradossale. Per cercar spazio nel mondo del lavoro o nelle attività commerciali o artigianali lo straniero è disposto a rinunciare a varie comodità, garanzie e protezioni (zero welfare)  riuscendo solo in tal modo a offrire beni e servizi a basso prezzo e creando indubbie difficoltà a chi è protetto ed “in regola”.

Un esempio. Nei bar di vicinato tutto costa meno nei locali gestiti da orientali, che, oltretutto sono sempre aperti, per più di dodici ore. Pare che nel retro i gestori dormano nel locale, anche se è senza finestre e molto piccolo. Ma il servizio sembra ottimo. La giovanissima cinesina (in regola?) che serve in tavola, per tutte le dodici ore sorride.

I pochi bar rimasti nella zona, gestiti da italiani, sono in piena crisi e non riescono a competere con prezzi ed orari così irraggiungibili. Le cameriere “in regola” costano molto di più: le pause, le ferie e l’orario giornaliero, la tassazione non sono confrontabili. Il sindacato che meritevolmente ha favorito negli anni il benessere, i diritti e le protezioni dei lavoratori oggigiorno non può che farsi carico di combattere contro questa insostenibile disparità. È pensabile? Non può certo respingere l’immigrato o boicottarlo!

È sicuramente consapevole che facendo pressione per portare lo straniero ad essere pienamente “in regola” alzerebbe a tal punto il suo costo o il costo dei suoi prodotti che  ne determinerebbe l’ uscita dal mercato. Diminuire le garanzie sindacali e, conseguentemente, il costo del lavoratore italiano per ristabilire un equilibrio, non è pensabile. Tollerare il lavoro in nero degli stranieri, l’evasione  o le gravi mancanze di sicurezza o igiene oggi largamente presenti non è accettabile.

Brescia e la sua provincia non sono affatto diverse dalle altre zone d ‘Italia. La insostenibile competitività sta diventando esplosiva e genera reazioni anche violente sopratutto nelle aree dove la crisi è più grave, sia nel settore dell’artigianato e delle piccole attività industriali ed agricole, sia nel lavoro dipendente. La politica ondivaga per natura, non riesce ad esprimere comportamenti coerenti e costanti.  Che fare?

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L’OPINIONE. Industria 4.0, serve un percorso partecipato e non calato dall’alto

in Cgil/Economia/Evidenza/Opinioni/Sindacati by
Damiano Galletti (Cgil) - Brescia

di Damiano Galletti – La grande trasformazione produttiva in atto, comunemente chiamata «Industria 4.0», molto sta facendo discutere, non solo a Brescia. Merito anche del Governo che, seppure in maniera tardiva, ha finalmente spostato l’asse su una politica industriale degna di questo nome,  ha presentato un progetto articolato di investimenti e incentivi fiscali e ha costituito una cabina di regia aperta a imprese, centri di ricerca e parti sociali. Una buona notizia, appunto, soprattutto per un Paese come il nostro, che da troppo tempo soffre di bassa produttività e mancati investimenti pubblici e privati.

Il fatto che la cabina di regia nazionale sia aperta anche alle parti sociali non è casuale e tiene conto del fatto che non stiamo parlando solo di macchinari ma di processi che avranno in pochi anni enormi
ripercussioni anche sul fronte del lavoro. Quanto ce ne sarà, come sarà svolto, come cambierà l’identità stessa del lavoratore, quali effetti avrà sulle politiche di welfare. Non sono questioni secondarie, per dare l’idea della dimensione del problema basti citare le considerazioni a riguardo di Bill Gates, che non più tardi di qualche giorno fa ha proposto «una tassa sui robot che ci ruberanno il lavoro».

Di tali questioni la Cgil si sta occupando da tempo, con diverse giornate di approfondimento seminariale a livello nazionale (Torino, Ancona, Firenze solo per citare alcuni degli apuntamenti principali) che presto verranno declinate anche a livello territoriale, e nella convinzione che in sintesi, vicino ad Industria 4.0, vada progettato anche il Lavoro 4.0. E, aggiungo, il welfare 4.0, un processo che deve
essere governato e partecipato il più possibile a tutti i livelli se vogliamo che produttività, partecipazione e qualità del lavoro non risultino parole vuote. Positiva è stata in questo senso la cabina di
regia che, inizialmente su impulso di Apindustria, si è costituita in Camera di Commercio e che vede numerosi attori coinvolti nel «Comitato 4.0», tra cui anche le rappresentanze dei lavoratori. Ci è sembrato un buon modo di procedere, un segno di consapevolezza della dimensione del
tema, che vuole valorizzare le opportunità senza eludere gli elementi critici.

Colpisce invece il titolo del convegno promosso lunedì da AIB, dal titolo «Industria 4.0. La trasformazione da affrontare insieme», nel quale spiccavano soprattutto le assenze. Non solo di carattere sindacale. La sala era molto piena, segno di un interesse genuino, speriamo non semplicemente legato alle agevolazioni fiscali in materia previste dall’ultima manovra di stabilità del Governo. L’industria 4.0, le trasformazioni che questa comporterà per le nostre vite (anche di quella dei sindacalisti: dobbiamo riconvertire anche noi le nostre competenze contrattuali, le conoscenze di processo e di prodotto, le dinamiche globali dei sistemi interconnessi) non possono essere ridotte a incentivi fiscali e controllo dall’alto, senza pensare che il dialogo tra tutte le parti sociali, alla ricerca di una nuova mediazione tra capitale e lavoro, sia quanto mai necessario. A meno che non si pensi che nell’Industria 4.0 i temi del lavoro di cittadinanza, del salario sociale, della divisione del lavoro, della flessibilità e della gestione degli orari  possano essere gestiti in ottica 1.0.

* segretario generale Cgil Camera del Lavoro di Brescia

Acciaio, Piombino ad alta tensione: tutte le manovre in corso

in Acciaio/Economia/Evidenza/Opinioni by

Segnaliamo ai lettori e ripubblichiamo un interessante intervento di Ugo Calzoni sulla rivista FirstOnLine:

Da Populonia a Follonica e in tutta la val di Cornia la mobilitazione dei Sindaci e del Sindacato ha riproposto per l’ennesima volta il problema della sopravvivenza della siderurgia piombinese ormai limitata alla lavorazione a freddo della ex Magona e all’asfittica gestione delle Acciaierie da tre anni nelle mani della Cevital di Isach Rebrab.

L’imprenditore algerino paga certamente le difficoltà politiche casalinghe che lo vedono in contrasto con il locale Governo ma aggiunge negativamente i ritardi accumulati col piano di riassetto e di rilancio del sito industriale e del suo porto; piano che aveva spinto la liquidazione disposta dalla Legge Marzano ad affidargli la proprietà e la gestione del grande stabilimento che fu dello Stato, poi della famiglia Lucchini e infine dei russi della Severstal.

Cevital ha soltanto rimesso in funzione le tre linee di laminazione (vergella, lunghi e rotaie) comprando qua e là l’acciaio necessario ad alimentare gli impianti: in un primo tempo approvvigionandosi dai Riva, poi saltuariamente dai bresciani e, infine, sul mercato internazionale delle billette. L’alto forno a ciclo integrale promesso è di fatto rinviato sine die e quello elettrico, da complementare ad alternativo, è rimasto solo sulla carta. Tutto ciò ha costretto Piombino a lavorare a singhiozzo e a ridurre notevolmente il portafoglio-ordini delle rotaie che potevano essere il cuore strategico del business dal momento che lo stabilimento toscano resta con l’austriaca Voest Alpine l’unico produttore europeo.

Pochi soldi, scarsa liquidità, capitale insufficiente hanno obbligato Rebrab a non poter onorare gli impegni di investimento assunti e a dover cercare altre soluzioni come la ricerca di qualche socio o, almeno, di un fornitore di billette in grado di star “sul credere” per molti mesi. Da qui le sue giornate bresciane in cerca di partner o di contare sull’acciaio della Leali steel di Borgo Valsugana. E’ pur vero che nella città lombarda opera il suo studio legale di fiducia ma è altrettanto vero che da Brescia non è sorto nulla di buono per il futuro piombinese della Cevital. Anzi.

In questi giorni ha preso campo il Commissario della liquidazione Piero Nardi con un messaggio non molto criptico. Pur avendo venduto i cespiti della Caleotto di Lecco (Pasini-Gozzi) e di Servola (Arvedi) nonché in corso anche le trafilerie di Condove, ha ricordato alla stampa che nelle sue mani sono ancora saldamente tenute quote delle Acciaierie di Piombino per il 27,7% del capitale oltre ad una azione giuridicamente perseguibile qualora Cevital non sia in grado di onorare tutti gli impegni (nessuno escluso) presi a suo tempo.

Piero Nardi è stato uno dei potenti boiardi dell’acciaio di Stato. Protagonista della cessione ai Lucchini dell’Ilva di Piombino; poi manager e Ceo della Lucchini per tutto il periodo crepuscolare del Gruppo fino all’arrivo di Enrico Bondi che, cacciati tutti i dirigenti, di fatto venderà cespiti, centrali elettriche, fabbriche e pingui magazzini spianando la strada ai russi di Severstal. Ora Piero Nardi è il Commissario della liquidazione e, si dice in Toscana, in grado di non accontentarsi degli eventi ma di costruirne di migliori a suo piacimento.

Ecco perché l’amo del 27,7% è stato gettato nelle acque pescose dell’orizzonte piombinese. In primo luogo perchè gli impianti di laminazione (lunghi e vergella) sono altamente produttivi e garantiscono una altissima qualità al prodotto. Quello delle rotaie,poi, non ha bisogno di ulteriori migliorie sfornando rotaie di lunghezza competitiva a livello mondiale. Infine di alto forno a ciclo integrale non se ne parla più. L’impianto, quasi una pregiudiziale politica, di identità, che i piombinesi hanno sempre messo davanti ad ogni altra ragione o aspettativa, è ormai lasciato cadere a fronte di un futuro possibile forno elettrico. Ne guadagnerebbe l’ambiente senza più cokerie, carbone ed emissioni a sostegno di un futuro dell’immenso patrimonio territoriale che va dal centro di Piombino fino all’attuale centrale dell’Enel. Un autorevole politico a commento della mobilitazione pubblica dei giorni scorsi ha sottolineato più volte che il futuro dello stabilimento sta “ nella utilizzazione degli attuali impianti”.

Così Piero Nardi ha riaperto le porte ai vecchi amici bresciani che, lasciato alle spalle il tabù del ciclo integrale, potrebbero fare dello stabilimento un boccone ambito ed ambizioso e fornire l’acciaio necessario con le non sfruttate capacità produttive installate nei loro impianti. Al limite potrebbero governare anche insieme a Rebrab che rimane pur sempre un grosso consumatore di tondo per cemento armato in quel di Algeri.

A Brescia già circolano i nomi dei più sollecitati osservatori delle vicende piombinesi: si tratta di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e guida della Duferco in alleanza con Giuseppe Pasini della Feralpi. Altre voci aggiungono che sulle rotaie fanno corrono le ruote di Lovere dei Lucchini. Certo è che lo scenario promette “pièces” economiche ed imprenditoriali di grande interesse. Infatti i colossi dell’Alfa Acciai e dei Banzato, minacciati al cuore dalle produzioni piombinesi, non potranno accontentarsi di pagare il biglietto e godersi lo spettacolo stando in platea.

Il lavoro che non c’è: il filo rosso lega referendum a referendum

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Damiano Galletti (Cgil) - Brescia

di Damiano Galletti* – L’esito del referendum istituzionale della scorsa settimana ha chiuso in modo netto la stagione delle riforme calate dall’alto a colpi di maggioranza. Gli italiani hanno ribadito, per la seconda volta in meno di dieci anni, che agli azzardi istituzionali preferiscono la «vecchia» Costituzione. Di questo risultato non si può che essere soddisfatti. Negare il significato politico del voto di domenica 4 dicembre sarebbe però sbagliato, lo dicono non solo il risultato ma soprattutto la grande partecipazione, affatto scontata. A riguardo, vale la pena soffermarsi su quanto hanno sottolineato osservatori e analisti, ovvero che il «No» ha avuto maggiori consensi tra le classi popolari e tra i giovani. Il «No» ha insomma certificato, più di tanti report e discussioni in materia, il fallimento delle politiche economiche del Governo nel dare risposta alla mancanza di lavoro in Italia. Che, anche quando c’è, è sempre più precario e povero. Tanti giovani – evidentemente meno ammaliati dei loro governanti da social network e slide – hanno compreso molto bene lo stato dell’arte del Paese e hanno punito il Governo. Ripartire da qui, ripartire dal fatto che lavoro, promozione della sua dignità, lotta alla disoccupazione e alla povertà devono diventare un’ossessione per ogni Governo, per quello nuovo che c’è e per quelli che verranno, è fondamentale. È questo il grande nodo che abbiamo di fronte e in tal senso, a chiarire il quadro e posizioni, verrà in aiuto la scadenza sui tre quesiti referendari che abbiamo promosso come Cgil. Al di là dei tecnicismi, sui tre referendum dovremo dire se pensiamo che i voucher diano risposta al precariato e al lavoro povero o al contrario ne siano l’ultima frontiera, se riteniamo che un lavoratore licenziato in modo illegittimo non abbia diritto di trovare udienza da un giudice, se crediamo che il sistema degli appalti che inquina la trasparenza da un lato e peggiora le condizioni di lavoro dall’altro non debba essere responsabilizzato. I tre referendum sono il simbolo di un’idea di lavoro e non per caso sono un pezzo della campagna sulla Carta universale dei diritti del Lavoro che come organizzazione sindacale stiamo promuovendo da oltre un anno, una Carta che ha l’obiettivo dichiarato di ricomporre il mondo del lavoro, rafforzare la contrattazione collettiva, costruire un nucleo di diritti universali estesi a tutte le lavoratrici e i lavoratori, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa. Stiamo cambiando paradigma produttivo, la crisi esplosa nel 2008 ha fatto esplodere contraddizioni che ci trasciniamo da molto tempo, urgono risposte inedite in termini di politiche sociali, di politiche dell’inclusione e di politiche dalla formazione. Il lavoro, se e quanto ce ne sarà, se e quanto sarà dignitoso sotto il profilo economico e delle condizioni, dirà molto del nostro benessere futuro. Spiace che in molti di questo non si siano ancora accorti, spiace che alcuni pensino che bisognerà aspettare anni per vedere gli effetti del Jobs Act quasi l’Italia fosse una sorta di laboratorio sociale, spiace che questi tre refendum stiano già diventando un’ossessione per commentatori e governanti. Spiace perché il problema non è quando si terranno i tre referendum, ma se e quando si inizierà a dare risposta ai tanti giovani e alle tante famiglie che nelle periferie del Nord e del Sud Italia stanno esprimendo in modo sempre più evidente il loro disagio. Ascoltare e dare risposta a questo disagio, non lasciarlo in mano alla destra politica e sociale, è necessario. E doveroso, aggiungo, per forze politiche e organizzazioni sociali che si definiscono progressiste.

* Segretario Camera del lavoro di Brescia

L’OPINIONE: Rinnovo contratto meccanici, un passo nella direzione giusta

in A2A/Economia/Opinioni/Partecipate e controllate by

di Fabio Astori* – Dopo un anno di trattative si è giunti infine alla sottoscrizione di un’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto nazionale del settore metalmeccanico.
E’ un accordo unitario, sottoscritto da tutte le organizzazioni sindacali, e questo è già un valore in sé, per nulla scontato dopo due rinnovi senza la firma della Fiom – CGIL.
Non solo un valore politico, ma anche e soprattutto pratico, di una ritrovata unità di intenti e di azione da cui ci attendiamo risultati immediati nella quotidiana gestione delle attività aziendali, che richiedono oggi come mai quel clima di collaborazione cui anche il sindacato deve e può concorrere.
La vertenza è stata lunga e complessa, ci sono stati anche momenti conflittuali, cosa del resto inevitabile di fronte alla richiesta di Federmeccanica di un vero “rinnovamento” culturale e contrattuale, di un cambiamento sostanziale anche nelle relazioni industriali per rispondere alle mutate esigenze delle imprese di fronte alla crisi e alla competizione globale.
Vediamo con favore la chiarezza della posizione assunta dalle parti in materia di contrattazione aziendale, inequivocabilmente variabile, legata ai risultati aziendali conseguiti e pertanto destinata a distribuire solo la ricchezza effettivamente prodotta.
Nel quadro di una sempre maggior valorizzazione dei rapporti con i nostri dipendenti, l’attenzione alle risorse umane è un pilastro importante di questo rinnovo: gli investimenti in welfare e formazione ne sono la testimonianza e confermano, insieme a temi importanti quali la sicurezza sul lavoro e le politiche attive, la svolta che l’ipotesi di contratto appena siglata rappresenta.
Da non sottovalutare anche le ricadute positive del meccanismo di riconoscimento dell’inflazione ex post (anziché ex ante), con conseguente allineamento dei minimi contrattuali. Il modello tradizionale non era più sostenibile: per effetto di continui scostamenti tra inflazione prevista (quella su cui erano calcolati gli incrementi salariali) e inflazione reale, le retribuzioni tra il 2007 e il 2015 sono cresciute il doppio rispetto al costo della vita, mentre nello stesso periodo la produzione metalmeccanica è diminuita del 30% e il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto del 22%.
Sono tutti elementi di novità sui quali Brescia si è spesa molto a livello locale, ma anche nazionale, che convergono in un’unica direzione: quella dell’aziendalizzazione del nostro sistema contrattuale, per avere più contrattazione aziendale e meno nazionale, più innovazione e meno ideologia.
Questo rinnovo, pur non realizzando pienamente quegli obiettivi di rinnovamento di cui le imprese hanno urgente bisogno, può considerarsi nel complesso un primo importante passo nella giusta direzione.
La strada da fare è ancora lunga perché possa dirsi marginale la parte retributiva del contratto nazionale e prevalenti le risorse da gestire nello scambio tra salario e produttività in azienda, ma un ulteriore passo avanti potrà essere realizzato  nell’imminente confronto sulla riforma degli assetti contrattuali tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Perché ciò accada, AIB ha già iniziato a far sentire la propria voce.
* Vice Presidente Relazioni Industriali AIB

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