Il lavoro che non c’è: il filo rosso lega referendum a referendum
di Damiano Galletti* – L’esito del referendum istituzionale della scorsa settimana ha chiuso in modo netto la stagione delle riforme calate dall’alto a colpi di maggioranza. Gli italiani hanno ribadito, per la seconda volta in meno di dieci anni, che agli azzardi istituzionali preferiscono la «vecchia» Costituzione. Di questo risultato non si può che essere soddisfatti. Negare il significato politico del voto di domenica 4 dicembre sarebbe però sbagliato, lo dicono non solo il risultato ma soprattutto la grande partecipazione, affatto scontata. A riguardo, vale la pena soffermarsi su quanto hanno sottolineato osservatori e analisti, ovvero che il «No» ha avuto maggiori consensi tra le classi popolari e tra i giovani. Il «No» ha insomma certificato, più di tanti report e discussioni in materia, il fallimento delle politiche economiche del Governo nel dare risposta alla mancanza di lavoro in Italia. Che, anche quando c’è, è sempre più precario e povero. Tanti giovani – evidentemente meno ammaliati dei loro governanti da social network e slide – hanno compreso molto bene lo stato dell’arte del Paese e hanno punito il Governo. Ripartire da qui, ripartire dal fatto che lavoro, promozione della sua dignità, lotta alla disoccupazione e alla povertà devono diventare un’ossessione per ogni Governo, per quello nuovo che c’è e per quelli che verranno, è fondamentale. È questo il grande nodo che abbiamo di fronte e in tal senso, a chiarire il quadro e posizioni, verrà in aiuto la scadenza sui tre quesiti referendari che abbiamo promosso come Cgil. Al di là dei tecnicismi, sui tre referendum dovremo dire se pensiamo che i voucher diano risposta al precariato e al lavoro povero o al contrario ne siano l’ultima frontiera, se riteniamo che un lavoratore licenziato in modo illegittimo non abbia diritto di trovare udienza da un giudice, se crediamo che il sistema degli appalti che inquina la trasparenza da un lato e peggiora le condizioni di lavoro dall’altro non debba essere responsabilizzato. I tre referendum sono il simbolo di un’idea di lavoro e non per caso sono un pezzo della campagna sulla Carta universale dei diritti del Lavoro che come organizzazione sindacale stiamo promuovendo da oltre un anno, una Carta che ha l’obiettivo dichiarato di ricomporre il mondo del lavoro, rafforzare la contrattazione collettiva, costruire un nucleo di diritti universali estesi a tutte le lavoratrici e i lavoratori, indipendentemente dalla loro condizione lavorativa. Stiamo cambiando paradigma produttivo, la crisi esplosa nel 2008 ha fatto esplodere contraddizioni che ci trasciniamo da molto tempo, urgono risposte inedite in termini di politiche sociali, di politiche dell’inclusione e di politiche dalla formazione. Il lavoro, se e quanto ce ne sarà, se e quanto sarà dignitoso sotto il profilo economico e delle condizioni, dirà molto del nostro benessere futuro. Spiace che in molti di questo non si siano ancora accorti, spiace che alcuni pensino che bisognerà aspettare anni per vedere gli effetti del Jobs Act quasi l’Italia fosse una sorta di laboratorio sociale, spiace che questi tre refendum stiano già diventando un’ossessione per commentatori e governanti. Spiace perché il problema non è quando si terranno i tre referendum, ma se e quando si inizierà a dare risposta ai tanti giovani e alle tante famiglie che nelle periferie del Nord e del Sud Italia stanno esprimendo in modo sempre più evidente il loro disagio. Ascoltare e dare risposta a questo disagio, non lasciarlo in mano alla destra politica e sociale, è necessario. E doveroso, aggiungo, per forze politiche e organizzazioni sociali che si definiscono progressiste.
* Segretario Camera del lavoro di Brescia